Sessant’anni fa nasceva il Patto di Varsavia

Era un altro mondo, del quale oggi molti hanno una struggente nostalgia. Patti chiari e inimicizie lunghe, il Muro di Berlino sarebbe tecnicamente stato costruito solo qualche anno dopo, ma il Muro in senso politico e metaforico c’era già: o si stava da una parte, o dall’altra, le alleanze, le lealtà a i territori definiti e non soggetti a revisione. Era il mondo “bipolare” alla cui fine oggi Vladimir Putin continua a rimproverare l’instabilità globale, e per mettere questa divisione in due su carta e formalizzarla, il 14 maggio di 60 anni fa, otto Paesi socialisti dell’Europa dell’Est firmarono il Patto di Varsavia. 

 

Era un mondo per certi aspetti sorprendente nel quale, prima di decidersi a fondare la sua anti-Nato, l’Unione Sovietica per messi bussò alla porta della Nato chiedendo di farsi ammettere in quella che oggi considera l’alleanza militare sua nemica. Era un’Europa dove il nemico potenziale – non solo dei sovietici, ma anche di molti europei occidentali come i francesi – veniva individuato nella Germania post-nazista. Era stata proprio la decisione degli ex Alleati di permettere alla parte della Germania sotto il loro controllo di ricominciare ad armarsi, e aderire alle strutture della Nato, ad allarmare Mosca, che temeva che un giorno la potenza militare rinata avrebbe potuto essere rivolta contro il blocco comunista.  

 

Stalin era morto nel 1953, i suoi eredi cercavano una forma di convivenza con i nemici ideologici, e il Cremlino – altra vicenda che oggi suona sorprendente – aveva offerto agli Alleati di procedere a una riunificazione della Germania, a condizione che sarebbe rimasta un Paese neutrale e non armato. L’incubo di una nuova guerra europea era ancora troppo presente, ma inglesi, americani e francesi rispondono di no, la Germania post-bellica doveva far parte dell’Occidente anche militarmente, con una potenza militare che già all’epoca prometteva di diventare la più massiccia del continente, grazie anche all’esperienza di molti ex ufficiali della Wehrmacht. La richiesta di Mosca di aderire alla Nato viene respinta, con il caustico commento di Hastings Ismay, il consigliere militare di Churchill durante la guerra, che sarebbe stato come “accogliere nelle forze di polizia un ladro recidivo”. Allora dal Cremlino arriva la proposta di una struttura di sicurezza paneuropea, nella quale integrare tutti, comunisti e capitalisti, ed è curioso come mezzo secolo dopo la stessa idea è stata ritirata fuori dalla diplomazia putiniana, come alternativa all’espansione della Nato, che già nel 1954 Ismay definiva “l’ombrello sotto il quale prima o poi si sarebbe radunato tutto il mondo libero”. 

 

Le vecchie alleanze erano ormai finite, ci si preparava a una guerra inevitabile tra ex compagni d’armi, la bomba atomica era già stata inventata e il premier sovietico Gheorghy Malenkov diceva di temere “l’estinzione del genere umano” (ma era stato rimproverato dal suo ministro degli Esteri Molotov, secondo il quale un vero comunista doveva invece pensare a “sterminare la borghesia”). Il pacifismo suonava come una dottrina assurda, e il 14 maggio 1955 Mosca lancia la fondazione della sua “Nato rossa”. Vi aderiscono 8 Paesi: oltre all’ Urss la Polonia, la Germania dell’Est, l’Albania (che uscirà nel 1961, formalizzando la rottura nel 1968, preferendo l’alleanza con Mao), la Romania, la Cecoslovacchia, la Bulgaria e l’Ungheria. Il “Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza” proclama la nuova organizzazione come pacifica e ispirata ai principi dell’Onu, ed è composto da appena 11 articoli, dei quali quello fondamentale è il quarto (nello statuto Nato il famoso “articolo quinto”) che impone la mobilitazione degli alleati nel caso di minaccia a uno di loro. 

 

Nonostante numerose manovre da nomi buonisti come “Amicizia”, “Fratellanza” e “Danubio”, il Patto di Varsavia – il WarPac, in terminologia americana – in 36 anni di esistenza in realtà opererà una sola volta, per schiacciare la primavera di Praga nel 1968. Non senza qualche screzio: la Romania si rifiuta di partecipare, anche perché Ceausescu teme giustamente di poter diventare anche lui il bersaglio di un intervento di “aiuto fraterno”, mentre il leader tedesco Walter Ulbricht insiste per essere della partita nonostante le remore di Mosca a risvegliare brutti ricordi spedendo a Praga carri armati tedeschi. Ma in realtà in tutti i piani operativi gli unici eserciti a venire considerati, oltre a quello sovietico, sono i tedeschi e i polacchi. 

 

Più che uno strumento di difesa dalla Nato il WarPac si rivela quasi subito uno strumento per tenere al guinzaglio gli alleati di Mosca, che nel Patto comanda senza nemmeno fingere una cooperazione: tutti i comandanti militari e politici dell’organizzazione sono generali di Mosca, l’autonomia militare degli alleati è pari a zero e la “dottrina Brezhnev” viene formulata dall’allora leader sovietico ai “fratelli” cecoslovacchi con estrema semplicità: “Le vostre frontiere sono le nostre frontiere, e così sarà sempre”. Krusciov urla ai compagni polacchi “Ve la faccio vedere io, la strada diversa verso il socialismo”. Nel 1956 Mosca manda i carri armati a Budapest proprio per impedire al premier Imre Nagy di uscire dal Patto di Varsavia, e anche nel 1961 a Berlino preferisce agire senza ricorso agli alleati.  

 

Una sfiducia verso i satelliti “a sovranità limitata”, che raggiunge il suo picco nel 1981, quando nonostante le ripetute proposte di Brezhnev di “aiutare a difendere la Polonia socialista”, sono proprio i “falchi” del Pcus a rinunciare a una Praga-bis. I motivi sono sia militari – per occupare la Polonia servono 45 divisioni, ma l’Urss era già impegnata in Afghanistan, e la Cecoslovacchia e la Ddr potevano inviarne solo 15, - sia politici: il capo del Kgb Andropov teme le “sanzioni dei capitalisti che per noi sarebbero molto pesanti”, e il capo dell’ideologia Suslov è contrario a inviare le truppe, “a nessuna condizione”, per evitare boicottaggi internazionali. Paure che 35 anni dopo, nella crisi ucraina, la Russia non ha avuto. 

 

Il rifiuto di schiacciare Solidarnosc fu l’inizio della fine, e 10 anni dopo il Patto di Varsavia cessa di esistere, con la caduta dei regimi comunisti dell’Europa dell’Est e la riunificazione della Germania. Gorbaciov si rende conto che una Tiananmen in Europa avrebbe solo accelerato il collasso del comunismo e dichiara liberi tutti. La propaganda russa afferma tuttora che la condizione per lo scioglimento fu l’impegno della Nato – successivamente violato – a non inglobare gli ex alleati sovietici, anche se non esiste nessuna prova scritta o verbale di questo accordo, e il protagonista di quelle vicende Mikhail Gorbaciov nega di averne mai parlato con Kohl e Bush. Cechi e polacchi bussano alla porta della Nato, l’Armata Rossa si ritira dall’Europa dell’Est (solo nella Ddr c’erano 500 mila militari) e nessuno può immaginarsi che 25 anni dopo a Mosca l’alleanza militare verrà ancora raccontata come “esclusivamente pacifica” e rimpianta come un pilastro della sicurezza mondiale. L’89% dei russi confessa ai sociologi del centro Vziom di condividere questa idea, e il 55% ritiene gli anni ’60 del Novecento – tra la crisi di Cuba, l’invasione della Cecoslovacchia, il Vietnam e altre “guerre per procura” tra i due blocchi in giro per il mondo – il periodo in cui si sentivano “più al sicuro”, mentre dagli anni ’90 si sentono “in pericolo”. Putin, ammirando il suo arsenale che sfila in piazza Rossa per l’anniversario della vittoria sul nazismo, critica il sistema “monopolare” e rimpiange quello “bipolare”, nel quale la Russia aveva il suo pezzo di mondo e tutti sapevano da che parte stavano. 

Original source: La Stampa